23 Maggio 2025

“Knowledge Workers” e nuovi orizzonti per Organizzazioni e HR

Il modo che avete di vedere le persone influenzerà il modo che avete di trattarle e il modo in cui le tratterete si ripercuoterà su ciò che diventeranno.

Peter Drucker

I Knowledge Workers e la nuova visione

Negli ultimi decenni, molte aziende hanno adottato modelli organizzativi e gestionali d’ispirazione anglosassone. Per capire davvero cosa sta succedendo, può essere utile tornare a Peter Drucker (1909-2005), celebre teorico del management, che nel suo libro The Age of Discontinuity: Guidelines to Our Changing Society (1969) introduceva il concetto di knowledge Worker, la figura centrale nella nascente “economia della conoscenza“, un modello economico in cui la conoscenza, l’informazione e le competenze sono le risorse principali per creare valore, più delle materie prime o della forza lavoro manuale. Per capire da dove nasce il concetto, serve uno sguardo al contesto storico.

Le grandi trasformazioni tra anni ’50 e ’70

Tra gli anni ’50 e ’70, società ed economia attraversano profondi cambiamenti. La Carta dei Diritti Umani, del 1948, stabilisce principi universali legati alla dignità della persona, influenzando il pensiero politico e sociale del secondo dopoguerra, in parallelo, la ricostruzione post-bellica stimola la crescita industriale e la nascita di nuove tecnologie, è innegabile che l’introduzione del transistor, e dei primi computer programmabili, segni una svolta nei modi di produrre e lavorare; perfino di interagire con la realtà, anche se siamo ancora all’inizio. Negli stessi anni, si sviluppano diversi movimenti culturali e sociali, come il femminismo, le proteste giovanili e le campagne per i diritti civili negli Stati Uniti, che contribuiscono a ridefinire le dinamiche della società e a modificare il quadro normativo. È nel contesto di questi cambiamenti che emerge la figura del knowledge worker che, a differenza dei lavoratori manuali, si distingue per competenze specialistiche e per la capacità di gestire, interpretare e generare conoscenza, dunque un contributo non legato soltanto alla forza fisica, ma alla risoluzione di problemi complessi, al pensiero critico e alla creatività. Una rivoluzione assoluta per il mondo del lavoro.

L’intuizione di Drucker

Nel citato The Age of Discontinuity, Drucker afferma che la vera rivoluzione non è nella tecnologia in sé, ma nel fatto che la conoscenza diventa la principale risorsa produttiva. I knowledge worker (ingegneri, analisti, medici, programmatori, ricercatori) non eseguono semplicemente ordini, ma prendono decisioni, elaborano soluzioni e creano valore attraverso il pensiero. Drucker osserva che non possono essere gestiti con i modelli tradizionali del management industriale, perché per esprimersi al meglio hanno bisogno di autonomia, obiettivi chiari e contesti in cui la conoscenza possa circolare e crescere. Questa visione anticipa molte delle sfide che oggi affrontano le organizzazioni: dall’engagement alla formazione continua, fino alla costruzione di ambienti di lavoro che valorizzino il “capitale umano”:

“Nel lavoro della conoscenza, il “come” arriva solo dopo aver risposto al “cosa”. Nel lavoro manuale, il compito è sempre dato. Dove esistono ancora i domestici, è il padrone di casa a dire loro cosa fare. La macchina o la catena di montaggio programmano l’operaio. Ma nel lavoro della conoscenza, la domanda ‘che cosa fare’ diventa la prima e decisiva questione. I knowledge workers non sono programmati dalla macchina. Sono in gran parte loro a controllare i propri compiti, e devono farlo. Perché possiedono, e solo loro possiedono, il più costoso dei mezzi di produzione: la loro istruzione. E lo strumento più importante: la loro conoscenza.”
Peter F. Drucker, The Age of Discontinuity (1969)

L’alzarsi dell’asticella: le aziende guidate dai Knowledge Workers

Quindi, a partire dagli anni ’70, iniziamo a vedere qualcosa di nuovo, perché le aziende non sono più solo fondate da imprenditori tradizionali o da manager con esperienza sul campo, cominciano ad affermarsi realtà guidate direttamente da questi “professionisti della conoscenza”: ingegneri, informatici, scienziati, designer. Sono imprese che non solo cambiano il modo in cui si lavora, ma alzano su più fronti il livello delle aspettative:

Una cultura dell’innovazione come valore fondante
Non si tratta più solo di eseguire, in aziende come Xerox PARC, Bell Labs, Google, Microsoft, per citarne qualcuna, l’innovazione diventa parte integrante del lavoro quotidiano, e chi ci lavora è invitato a contribuire, a proporre, a sperimentare. Il messaggio è “qui sei pagato per pensare”, e non è un dettaglio, è una “cultura”.

Spazi e ambienti che stimolano, non frenano
Il design degli uffici, le modalità di collaborazione, persino la pausa caffè: tutto viene ripensato per incoraggiare la condivisione e il confronto; non solo comfort, è una scelta strategica per facilitare il pensiero creativo.

Crescita professionale come investimento, non come benefit
In queste aziende, la formazione non è un extra, è parte integrante del lavoro. Crescere, aggiornarsi, spostarsi su nuovi progetti è pensato per far evolvere le competenze, perché il “capitale vero”, benché intangibile, sono le persone.

Un approccio alla retribuzione che riconosce il valore
I knowledge workers non vengono attratti solo da uno stipendio, ci sono anche riconoscimento, prospettiva, partecipazione. E queste aziende lo capiscono presto, proponendo pacchetti competitivi, benefit, stock option, ma, soprattutto, un contesto in cui sentirsi parte di qualcosa di significativo.

Flessibilità vera, non solo sulla carta
Ben prima che si parlasse di smart working come lo intendiamo oggi, molte di queste realtà avevano già introdotto modelli flessibili, in cui era normale autogestirsi, lavorare per obiettivi, alternare ufficio e remoto.

Responsabilità sociale come elemento identitario
Un altro aspetto che colpisce è l’attenzione all’esterno. Impegno sociale e sostenibilità, per esempio, non sono voci a margine del bilancio sociale, ma parte dell’identità aziendale, e questo può attrarre professionisti che non cercano solo un lavoro, ma un contesto coerente con i propri valori.

Le sfide Italiane nel fare spazio ai Knowledge Workers

Portare il modello dei knowledge workers nel tessuto produttivo italiano non è semplice, la direzione è chiara, ma il cammino è tutt’altro che lineare, reso difficoltoso da barriere culturali, strutturali e organizzative che frenano la transizione verso un lavoro fondato sul sapere, sull’autonomia e sull’innovazione. Vediamole più da vicino:

  1. Cambiamenti culturali lenti
    Cambiare mentalità richiede tempo, e in molte organizzazioni, si tende ancora a preferire ciò che è consolidato, anche quando non funziona più come dovrebbe. La cultura del controllo è spesso più forte di quella della fiducia.
  2. Una struttura economica ancora legata al manifatturiero
    Il nostro Paese ha una lunga e solida tradizione industriale, ma proprio questa forza rischia di diventare un freno. Le aziende abituate a lavorare con logiche produttive verticali faticano a riorganizzarsi attorno a modelli basati sulla conoscenza, sullo scambio informativo e sull’orizzontalità dei ruoli.
  3. Un contesto burocratico poco agile
    È un punto dolente, ma va detto, perché è vero, è noto ed è un dato che la burocrazia italiana non sempre agevoli l’innovazione. Regole rigide, processi lenti e adempimenti spesso superati possono rendere difficile per le aziende adottare pratiche più fluide e orientate al lavoro per obiettivi.
  4. Scollamento tra istruzione e mondo del lavoro
    Il sistema educativo si sta muovendo, ma il passo è ancora lento. La formazione universitaria non si sempre è allineata con le competenze richieste dalle imprese che lavorano su progetti avanzati. Serve più connessione, più dialogo, più concretezza nella preparazione dei futuri knowledge workers.
  5. Investimenti ancora limitati
    Molte aziende italiane, soprattutto PMI, non hanno risorse o incentivi per investire in nuove tecnologie e ambienti di lavoro evoluti. Senza questo salto, diventa difficile creare le condizioni in cui i knowledge workers possano davvero esprimersi.
  6. Un’idea di carriera ancora troppo verticale
    In molte realtà, la crescita professionale è ancora legata al tempo di permanenza o all’avanzamento gerarchico, ma i knowledge workers cercano progetti, sfide, autonomia, non solo promozioni. Se l’organizzazione non si adatta, rischia di perdere i profili migliori.

Non sono sfide insormontabili, ma richiedono convinzione e visione, perché il cambiamento va guidato, ma anche vissuto ogni giorno nella pratica quotidiana. Se vogliamo davvero attrarre e trattenere i lavoratori che ragionano, creano, risolvono, dobbiamo ripensare le nostre aziende come luoghi che sanno valorizzare la conoscenza, non solo esigere prestazione.